PITTURA 2019-03-09T13:33:23+00:00

Project Description

Loading...
Ciclo dei Cefaloidi >>

I colori dell’anima: elogio dell’arcobaleno e apologia del nero

Un atto di fede e di gioia

di  Enzo Parillo

In un giorno come gli altri e soltanto per puro caso, come per una folgorazione, scoprii il colore nero che così a lungo si era nascosto nel “talamo” del mio cervello. Un nero a me sconosciuto, estraneo. Quel giorno, come fondo per una grande tela, cercavo un colore diverso dai soliti. A caso presi dalla mensola un barattolo di vernice: era proprio quello del nero.

Nei miei quadri non avevo mai utilizzato quel pigmento, neppure mai per sfumare le tracce di confine o accennare i deboli contorni della mie vagheggianti forme di colore etereo. Quel giorno diedi così una mano di nero e coprii la tela per intero. Guardai e non vidi alcunché di eccezionale. Riguardai. Non sentii alcuna vibrazione particolare. Così sul nero spalmai con la spatola il rosso e il giallo a formare due grosse macchie irregolari. Riguardai ancora la tela più volte ma davvero il risultato cromatico non mi pareva granché. Il giallo e il rosso sembravano del tutto indifferenti tra loro e col nero stesso, e non risaltavano prepotentemente come invece accadeva con un fondo bianco. Non trovavo alcuna armonia tra i tre colori. Tralasciai allora il rosso e il giallo e mi concentrai sul nero. Pensavo a un buco nero. Presi a fare dei calcoli. Sommavo emozioni, sottraevo sentimenti,  moltiplicavo sensazioni. Ma i conti non tornavano mai. Vedevo sempre e soltanto un vuoto buco nero e nulla si smuoveva nel mio animo. Iniziai a rimuginare dentro di me. Ripresi a calcolare. Ragionavo freddamente, ripercorrevo i passaggi già fatti. Memorizzavo i risultati ottenuti. Fissai quel nero con cattiveria. Guardai con rabbia e con disprezzo quel colore così nemico.

Ci fu poi un lampo luminosissimo che mi accecò. Nel mio cervello all’improvviso si creò il subbuglio. D’incanto e inspiegabilmente, la matematica di quel giorno si schiarì completamente, e istantaneamente ogni cosa mi apparve con precisione. Il mio cuore prese a pulsare all’impazzata. Qualcosa di strano avvenne in me. Mutai repentinamente atteggiamento. Mi ammansii del tutto. Guardai con dolcezza la nuova grazia cromatica della superficie della tela. Vedevo non più un buco nero, ma al suo posto apparve ora quel nero mutato, come il vero colore dell’anima mia. Dopo tanta indifferenza e forse anche avversione, correggendo un grossolano errore di calcolo, mi ero così innamorato perdutamente del nero.

Prima di quell’avvento avevo sempre escluso il nero dai miei lavori. Gli sfuggivo. Lo consideravo un non colore, una luce morta, era come la negazione di ogni nascita e della vita stessa. Era il nero infernale, rischiarato soltanto dalle fiamme degli abissi. Sembrava il colore del Peccato Originale e di ogni altro peccato quotidiano. Un colore mortale, non vivente e non vitale. Mi sembrava reo verso Dio, il colore del male, dell’odio e della violenza. Il non colore della fine di ogni cosa, il nero del giorno del Giudizio Universale, il colore della condanna di Dio verso i malvagi. Lo evitavo. Non mi era indifferente. Era un nero nemico, violento, e io con disprezzo lo avevo bandito dalla mia tavolozza.

Cercavo allora colori sgargianti, di festa, spesso anche carnevaleschi. Amavo il rosso più di ogni altro colore. Era, il rosso, il colore della nascita del fuoco che riscaldava, dell’amore che univa e riuniva. Il rosso era il colore del sole che tramontava. Avevo per il rosso un amore filiale e paterno allo stesso tempo. Di rosso erano colorati i miei sogni più belli. Rosso era il sapore della vita. Rosso era l’amore per i miei cari. Rosso era il sangue, e rossa era la vita al suo primo fiorire. Rosso era il colore del viso della giovinetta al suo primo bacio. Di rosso si erano tinti  l’amore e la passione travolgente per mia moglie. Rossi erano stati i miei giorni dell’attesa e della speranza di Dio, i giorni prima della resurrezione della mia anima smarrita. E rosso cupo era stato il colore della rabbia e del dolore per la morte di mio padre. E così di un rosso brillantissimo erano state la gioia e la felicità incommensurabili per la nascita di mia figlia. Il rosso dunque era l’unico colore e il colore chiave di tutta la mia stessa esistenza. Il colore della mia vita era il rosso e rosso sarebbe stato anche il colore della mia morte.

Amavo pure il giallo, il colore del sole che sorgeva, del grano maturo, dei girasoli in fiore, il giallo col profumo dei limoni, un giallo canterino. Giallo oro era anche il colore della corona del Re dell’universo, giallo era il colore del trono di Dio. Un giallo svolazzante e, insieme, il rosso che si arrampicavano verso l’alto e si aggrappavano alle nubi per arrivare agli Angeli di Dio.

Azzurro era poi il colore del cielo e del mare, di Venere e di Plutone. Era l’azzurro che illuminava della sua luce le vette dei monti, la neve all’alba. Azzurra era l’acqua gelata delle sorgenti montane. C’era ancora il verde: il verde era il colore dell’erba e delle foglie in primavera, il verde colore della speranza in Dio e della pace tra gli uomini.

E splendeva il bianco. Bianco era il colore del latte, della neve, delle nubi, della purezza di cuore, dell’animo dei giusti, della bellezza della fede, delle vesti degli Angeli. Bianco era il colore dei muri del Paradiso, del sudario di Cristo, della grandezza e della potenza di Dio.

Amavo tutti i colori dell’arcobaleno.

Odiavo il nero…

Dopo la folgorazione di quel giorno l’odio però si trasformò in amore irresistibile e ineguagliabile. Capii che il nero non era più quel colore che prima sembrava restringere o occludere il mio largo lume di creatività. Non era più il nero che prima consideravo deteriore e malato. Un nero quindi da evitare. Da quel momento divenne invece un nero amico, fratello, compagno e amante. Mi appariva, a quel punto, come un nero vitale e pregno di speranze. Non un colore vuoto di potere e di valori. Non sembrava, per niente più, vano o insignificante. Avevo incominciato a cercarlo disperatamente. La mia anima aveva bisogno della pienezza delle forme e dei volumi che mi sembrava allora potesse iniziare a definire. Non era il buio né la mancanza di luce, era invece come il cielo con la luce lunare, come il cielo notturno punteggiato da milioni di stelle. Era un nero silenzioso pacato. E non era il silenzio della morte, ma il silenzio della pace e della serenità, esprimeva l’amore mio per Dio e l’amore di Dio per me. Somigliava a quello che immaginavo fosse il silenzio festoso del Paradiso. Era un silenzio colmo di gioia. Un silenzio estatico. Un fedelissimo alleato per l’ottenimento del dono della grazia divina. Il mio nero: c’era un accordo tacito tra me e quel nero che aveva l’energia e la potenza dell’atomo e del nucleo. Un destriero superbo, un cavallo alato, le ali dell’amore e della vita. A me pareva che fosse il colore che Dio stesso aveva scelto per ridipingere l’interno del mio cuore rinnovato. E il mio cuore di prima, il mio cuore precedente il raggiungimento dello stato di beatitudine era soltanto il cuore di un uomo cariato e defedato. Poi invece era venuto per me prepotente la luce nuova del nero, del nero “verità”, del nero meconio, del nero universale, quello degli abissi marini e dello spazio siderale. Il nero del Big Bang, il nero della creazione del mondo, il nero preesistente, luce anticipatrice e generatrice della vita sulla Terra. Era il nero spazio del feto nel grembo materno. La vita veniva dal nero e finiva nel nero e col nero. Nera era la zolla fertile della terra bagnata. Nero era l’interno dell’uovo che accoglieva il pulcino. Nero era il colore della grotta dove nacque il Bambino Gesù. Nero era l’interno di ogni cellula. Nera era la doppia elica del DNA. Neri erano il mitocondrio e il ribosoma. Nero era l’RNA messaggero. Il nero preesisteva alla vita e coesisteva e insisteva con la vita. Esisteva il nero “profeta”, il nero anticipatore, esisteva il nero messianico. Nero era il colore che riempiva il cielo che copriva il monte dove era Gesù Cristo morente sulla croce. Il nero era fiero come un’aquila reale. Dio doveva aver creato il nero per dare un colore uniforme o unico alla vita che sorgeva. Il “fiat lux” era l’ordine dato da Dio al nero, affinché sprigionasse tutta l’energia del creato.

Il nero inoltre legittimava il bianco, ne anticipava la venuta e l’evoluzione. Il nero non era la non luce: era luce in negativo, luce allo specchio, era quella luce stessa che generava il bianco, che ne rendeva possibile l’esistenza. Il nero non era il vuoto senza Dio, il nulla senza amore, ma era la pienezza del brodo primordiale generato da Dio stesso. Si poteva vivere in compagnia del nero che afferrava la luce stessa, si poteva viaggiare senza sosta nel nero dell’inizio e della fine.

Nero, bianco e rosso complessivamente, formavano dunque il tricolore della bandiera della mia anima vagante e vagabonda. Dal nero del buio si vede verso il bianco della luce così come allo stesso modo dal bianco della luce si può entrare nel nero del buio. Bianco per il nero. Nero per il bianco. Due colori reciproci. Esistono e coesistono allo stesso tempo, volendo possono forse anche elidersi. Se si uniscono creano un grigio sanguemisto che è il colore dei metalli, della loro durezza e della certezza della forza della vita stessa. L’acciaio, il piombo, l’argento, il platino e l’alluminio. Il loro colore era il colore della vita e della morte insieme. In parti uguali.  Dell’esistenza e della non esistenza che non è, quest’ultima, mancanza del tutto, ma è pienezza della metà. Esistenza e non esistenza. Persistenza e coesistenza. Assenza. Presenza. Il nero è certezza della luce e luce delle certezze: la certezza di Dio e della sua potenza, la certezza stessa dell’intero creato. Il nero “genera” quindi la Massima Certezza. Le nostre tante e grandi incertezze possono invece generare soltanto piccole certezze soffocanti. La piccola certezza dell’uomo sofferente, la sola certezza della morte, una morte assoluta definitiva, una morte feroce, una morte priva di qualunque forma d’incertezza. E ancora, per alcuni la buia incertezza della presenza del Cristo e la cupa non certezza dell’esistenza del Padre.

Il nero, dunque, era venuto in conclusione una volta per tutte e, con ardente religiosità, mi aveva condotto per mano al traguardo della mia fede ritrovata.

Dopo tanto frastuono e forzato ascolto di rumori indecifrabili e assordanti, e dopo cosi grande tramestio di pene e di sconfitte era così giunto il quieto e fulgido nero vincente.

Il nero della nuova vita, a me donata dal Divino Volere, dal Sommo Sapere e dal Massimo Potere.

Vitulazio, 23 Ottobre 2017

                                                                                                                                       Enzo Parillo